== NON TRATTIAMO SUL DOLORE ==
== ALLEVIAMO IL PECCATO COME FONTE DI RELAZIONE ==
*Il set è uno zoo per animali vivi in cattività incestuosa.
La città era piovosa da anni senza mai lavarsi davvero.
L’acqua colava come pus dai cornicioni, scioglieva le insegne al neon e lasciava scoperti i nervi dell’asfalto. In un bar che odorava di muffa, ammoniaca e fallimenti, Lui entrò come si entra in chiesa: con la faccia giusta e nessuna fede. Un uomo ordinario dalla giacca anonima e dal sorriso calibrato. Dietro agli occhi, una contabilità precisa del dolore altrui.
Lei era già lì. Schiena dritta, mani pulite, tazza allineata al bordo del tavolo come un’ostia. Tranquilla all’apparenza, ma dentro un rosario di compulsioni, cicli maniacali e depressioni che si alternavano come stagioni sbagliate. Lo guardò e lo riconobbe subito. Non per ciò che era, ma per ciò che mancava.
Parlarono.
Di pioggia, di lavoro, di quanto la città sembrasse voler morire lentamente. Le battute erano lame rivestite di velluto. Lui misurava le reazioni, lei correggeva mentalmente ogni gesto fuori posto. Ridevano al momento giusto. Due predatori che fingevano di essere civili.
Quando uscirono, la pioggia li consacrò.
L’appartamento era un alveare di sporcizia: muri macchiati, lenzuola stanche, un odore dolciastro di umidità e vecchi peccati. Si spogliarono senza fretta, come si prepara un rito. Il sesso fu rapido e sporco, più un confronto che un abbandono: corpi che si usavano, mani che cercavano controllo più che piacere, respiri irregolari come preghiere recitate male. Nessuna tenerezza, solo attrito e bisogno.
Dopo, restarono immobili.
Lui pensava a quanto sarebbe stato facile.
Lei pensava a quanto fosse inevitabile.
Fu allora che si sorrisero davvero, per la prima volta.
Non per amore, ma per riconoscimento.
La pioggia continuava a cadere.
La città, ignara, aveva appena unito due sacramenti sbagliati.
*Il setting è un guscio d’uovo rotto; il tuorlo lo spirito dell’anima che se n’è andato in un afflato sulfureo.
L’appartamento respira male. La pioggia batte sui vetri come un debito insoluto. Sono nudi solo quanto bastava per non fingere più.
Lei: «Non ti sto piacendo. Ti sto servendo.»
Lui: «È la forma più onesta di intimità che conosco.»
Silenzio. Poi una risata breve, chirurgica.
Lei: «Il sesso è solo un modo per zittire il rumore. Dura poco. Come la fede.»
Lui: «La Chiesa promette redenzione, il letto promette oblio. Entrambe mentono, ma almeno una suda.»
Lei: «Peccato, allora.»
Lui: «Il peccato è marketing. Il dolore è sostanza.»
Lei si sistema una ciocca di capelli, gesto compulsivo, preciso.
Lei: «Il dolore mi rassicura. Ha confini chiari. L’amore no.»
Lui: «L’amore è sadismo travestito da poesia. Dare potere a qualcuno e chiamarlo dono.»
Lei: «E la morte?»
Lui: «L’unica cosa che non chiede consenso.»
Si guardano. Non c’è tenerezza, solo una stima fredda.
Lei: «Piacere e sadismo sono cugini. Si tengono per mano quando nessuno guarda.»
Lui: «Sì. Uno ti illude di riempirti. L’altro ti ricorda che sei vuoto.»
Un tuono lontano.
Lei: «Non ci ameremo.»
Lui: «Meglio. L’amore crea aspettative. Noi creiamo danni.»
Si alzano. La pioggia continua. Nessuna promessa, nessuna colpa. Solo due predatori che hanno appena confermato ciò che già sapevano: non c’è salvezza, ma c’è chiarezza.
E, per stanotte, è più che sufficiente.
*I personaggi sono maschere senza senso trasformabili in simulacri dal sangue coagulato.
La stanza resta la stessa: luce sporca, pioggia che filtra come un pensiero fisso, l’aria densa di sesso evaporato e di promesse mai fatte. Due corpi immobili solo in apparenza. Dentro, il teatro è già in fiamme.
Lui la osserva come si studia un progetto.
Nella sua mente la morte di lei è pulita, elegante, quasi liturgica. La vede smettere di respirare lentamente, il volto che perde significato mentre il controllo passa di mano. Nessuna rabbia. Solo piacere geometrico. Il suo sadismo non ha urla: è una linea retta che porta al silenzio.
Immagina il suo corpo come un oggetto finalmente fermo, il dolore come una funzione necessaria, l’agonia come un intervallo tecnico. Un piccolo martirio privato, senza pubblico, senza Dio.
Lei, invece, non immagina una sola fine.
La sua mente si frantuma in scene contraddittorie: lo vede implorare, lo vede ridere, lo vede morire per errore, lo vede amarla mentre muore. Per lei la morte non è un punto, è una spirale. Vorrebbe usarla, possederla, farne un’estensione del sesso: una confusione di carne, colpa e controllo.
Lo immagina soffrire e poi scomparire, ma anche restare, inchiodato al suo bisogno. Il dolore come collante, l’agonia come prova di esistenza. Non sa se ucciderlo o consumarlo fino a svuotarlo.
Si muovono quasi insieme. Un gesto. Un altro. La stanza diventa un diagramma sbagliato.
Il colpo di scena non è chi vince.
È che nessuno dei due aveva previsto l’altro fino in fondo.
Quando la pioggia rallenta, i cadaveri sono lì: intrecciati in una posa che somiglia troppo a un abbraccio per essere casuale. Due corpi senza più strategia, senza più vuoti da colmare.
Morte, sesso, dolore, agonia, martirio: tutto è passato attraverso di loro e li ha lasciati uguali a come erano all’inizio.
Finalmente immobili.
Finalmente pieni.