La nebbia avvolgeva quel che restava del Floating Museum come un sudario sospeso tra due mondi. Ma non era nebbia comune: sapeva di ferro e muffa, viveva di un’umidità che s’incollava alla pelle, insinuandosi negli interstizi delle ossa come una memoria malsana piena di ricordi non accettati e di rimpianti non condivisi.
Nelle sale gigantesche, il silenzio era interrotto solo dal crepitio lento delle candele. La luce tremolante si animava su statue di marmo: corpi umani levigati, mutilati con arte spietata, come se lo scalpello avesse seguito una logica di dolore.
Lucien Picard avanzava tra esse con passo grave, mentre il suo intero essere sembrava assorbire ogni residuo di luce. Non aveva fretta perché la notte era sua, ed era più spessa del sangue che stava per bere.
Ogni statua, per lui, non era pietra ma carne in attesa di essere ferita. Le venature bianche del marmo si gonfiavano, pulsavano appena, e quando la lama sottile del suo artiglio tracciava un solco, un fluido scuro colava fuori: non rosso vivo, ma viscoso, nero-porpora, denso come uno sciroppo dal sapore amaro, acido, intriso di secoli di silenzio e urla pietrificate. Un liquore invecchiato male.
«Più denso del ricordo, più denso dell’amore», mormorò, con un cinismo stanco. «…sempre più difficile da inghiottire.»
Ogni sorso bruciava la gola come incandescente ruggine liquida, ma senza quella tortura non avrebbe potuto proseguire. Non beveva per piacere: beveva per punizione, per ricordare a se stesso che il dolore era la sua unica eredità.
Per illudersi, nel dolore, di essere ancora vivo.
E mentre succhiava via l’essenza dalla statua, la scultura si piegava, si contorceva, come se il marmo non fosse che carne solidificata. Urlava senza suono, e quell’eco muta scivolava per le colonne alte fino ai soffitti a volta, che sembravano piegarsi sotto il peso di tutte le anime intrappolate del cosmo.
Le sale del Floating Museum erano un cimitero d’arte, un sacrario perverso alla sofferenza. Alle pareti, dipinti di corpi squarciati e volti terrorizzati, un bestiario di umanità ridotta a simbolo del proprio supplizio. Nel mezzo, tavoli d’esposizione con strumenti di tortura lucidati come reliquie. E sopra a tutto, la sensazione che lo spazio non avesse fine, come se ogni corridoio portasse solo ad un’altra sala più grande, più umida, più greve, più intrisa di vite umane annegate nel disagio perpetuato giorno dopo giorno.
Lucien si fermò davanti a una statua acefala, le mani spezzate, il torso rigato da fenditure. La lama del suo dito affondò lentamente. Il sangue marcio sgorgò lento, una cascata densa che colò tra le candele ai suoi piedi.
Non si trattava più di nutrimento ma di una blasfema confessione nel sangue. La sua personale eterna condanna.
Un sorriso sottile, senza gioia, attraversò il suo volto pallido. Sapeva che all’alba tutto sarebbe stato cancellato: le statue sarebbero tornate inerti, i pavimenti ripuliti dall’umidità, il museo chiuso nel suo silenzio rituale. Nessuno avrebbe ricordato il sangue. Nessuno, tranne lui. Continuò a bere, con malinconia e rabbia, divorando statue come se fossero amanti perduti, come se ogni goccia di quel sangue ispessito fosse una parte del suo stesso passato che non riusciva a seppellire. Per quanto lo volesse, esso riaffiorava sempre.
Quando la prima lama di luce filtrò dalla cupola centrale, Lucien si ritirò nell’ombra, gli occhi lucidi come due ferite.
La notte gli aveva dato ancora una volta il suo veleno. Mentre l’alba, come sempre, lo aveva privato di ogni memoria, lasciandogli solo il retrogusto amaro di un sangue più denso della vita stessa.
Lucien ricordi?