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Dies Irae IX – La Messa della Pioggia Bianca

Si era appena coricato, come un residuo d’uomo gettato dentro lenzuola che puzzavano di muffa e sesso mercenario. La stanza era povera, un cubo grigio di cemento crepato, finestre socchiuse per lasciar passare qualche boccata d’aria stantia che chiamava “fresca” solo per inganno. Fuori la città respirava come un polmone guasto, tremante sotto la pressione del temporale che stava per scatenarsi.

Le prime gocce di pioggia giunsero come dita contro il vetro: ritmate, quasi regolari, alla cadenza d’un metronomo cosmico. Chiuse gli occhi un istante, sperando di annegare nel sonno abitato dagli incubi della sua mente.
Ma qualcosa mutò.

Il rumore della pioggia cambiò timbro, diventando più denso, più carnale. Gocce non più d’acqua, ma di un fluido caldo, lattiginoso, viscoso: era il liquido amniotico che colava giù dai cieli per il parto abortito dall’universo stesso? Era lo sperma corrotto dei cherubini caduti nella dis-grazia divina? Probabilmente si trattava della fusione genetica di entrambe le cose; rivoli radioattivi impestati dallo schifo organico.
La stanza ne fu subito invasa: un odore dolciastro, nauseante, appiccicoso che impregnava i muri.

Sollevò lo sguardo. Attraverso le finestre socchiuse non scorse più nubi, ma ingranaggi. Strutture ciclopiche di metallo, sospese in cielo, ruotavano lente e ossessive. Erano occhi meccanici senza palpebre, angeli folli che fissavano la terra con un’adorazione malata, una liturgia di sorveglianza eterna. Le loro ali erano turbine, le loro aureole anelli dentati che scintillavano sotto i lampi. Monchi di gambe e braccia galleggiavano nell’antigravità muscolarmente eretti, ricoperti da tuniche albuginee.

“Nos sumus corpora cavernosa, semen vehimus ad parturientes, ex vulva dirupta fluens.” (*)

E comprese allora: quella pioggia era il seme del nuovo mondo, la sostanza con cui le Macchine-Dio alimentavano la nascita di un’umanità senza carne, senza respiro, senza redenzione. La sborra malata della marcescenza divina.

Un lampo squarciò il cielo e lui rivide le ombre dell’Ecclesia Tenebrarum: i cori che cantavano nelle cripte, il cappellano infernale, Noctius I che parlava di resurrezioni innaturali. Era tutto qui, vivo, presente. Non era finzione né memoria: era un seguito inevitabile.

Dalla finestra colava un rivolo che gli scivolò sul volto. Non era pioggia, non era sangue. Era un richiamo, un invito. E nel ronzio metallico delle macchine celesti udì una voce familiare, distorta, come recitata da cento gole in putrefazione:

“Tu sei l’erede dell’ultima liturgia; la carne che deve dissolversi. Ora, accogli la caduta nell’oscurità.”

E capì che non c’era più differenza tra letto e tomba, tra sonno e discesa, tra pioggia e liquido spermatico. Tutto era già stato deciso nell’ultima Messa Nera dell’Ecclesia.

Lui non dormiva. Stava solo rientrando nel grembo del Nulla.

* Noi siamo i corpi cavernosi e portiamo il seme per le partorienti dalla vagina slabbrata.
Nota sulla traduzione per gentile concessione di ChatGPT:
Nos sumus corpora cavernosa → resta come dichiarazione identitaria, ma suona già ieratica.
semen vehimusvehimus è più arcaico e rituale di ferimus, evoca l’idea di trasporto sacrale, quasi processionale.
ad parturientes → “alle partorienti”, diretto come dono/trasmissione.
ex vulva dirupta fluens → “dalla vulva lacerata che stilla/che fluisce”: più crudo e apocalittico, in linea con il tono liturgico-profano.

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